Paul, Mick e gli altri
2013-11-22 19:49:39 UTC
Premessa
Link molto interessante che tratta dei cambiamenti avvenuti tra il modello fordista-taylorista, dal Post-Fordismo-Toyotismo. Ho voluto postarne una sintesi, mettendo dei titoletti tra i vari passaggi per semplificare meglio l' articolo. E' comunque meglio leggerlo per intero: frammentarne i concetti di base avrebbe reso questo post, ancora più lungo. Buona lettura
http://www.ossimoro.it/lavoro1.htm
1. LA CRISI DEL TAYLOR-FORDISMO
Dopo avere portato la produttività del lavoro e la produzione di massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e da inondare il mondo di beni e di servizi, il modello di produzione e di consumo taylor-fordista è entrato in crisi con gli anni settanta e da allora evolve verso un modello chiamato per convenzione post-fordista.
Il cuore del cambiamento è questo passaggio storico, non quello dall’ industria ai servizi o dalla società industriale alla società post-industriale, tant’è vero che novità quali il just-in-time, il telelavoro, l’outsourcing e i call center vengono tutte dal nuovo modello sul quale si impernia oggi l’industria. Rispetto al taylor-fordismo, il post-fordismo è qualcosa che va oltre anziché qualcosa d’altro: infatti il passaggio in atto si deve sia al successo sia alla crisi del modello taylor-fordiano.
Questo passaggio sta sostituendo un mondo del lavoro piuttosto uniforme com’era quello del Novecento con un universo di lavori assai diversificati che si diffondono in senso spaziale e si disperdono in senso temporale, e che sono svolti da soggetti i quali operano alle dipendenze oppure in modo autonomo o con posizioni miste. Cresce inoltre il numero e cala la dimensione dei luoghi dove si lavora, per cui si trovano ovunque spezzoni di lavoro e persone che lavorano; crescono inoltre i tipi di orario e calano le sincronie fra gli orari, per cui si trovano sempre più persone che lavorano in ore insolite e con calendari complicati, anche nella stessa sede.
Tutto ciò comporta effetti positivi come la de-massificazione del lavoro, ma può anche comportare conseguenze che preoccupano i sindacati, come la de-solidarizza-zione dei lavoratori. Lo scenario che si prospetta è quello di una "società dei lavori", parecchi dei quali cangianti o sfuggenti, anziché di una "società del Lavoro" centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità quale l’Occidente capitalistico aveva avuto nel secolo scorso.
È una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita perché non mostra cesure nette. I suoi sviluppi, resi necessari dalle trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle innovazioni della tecnologia, erano del resto insiti nel medesimo meccanismo di creazione e di soddisfazione dei bisogni. È come l’automobile, che in un secolo è cambiata moltissimo ma continua ad avere un motore, una carrozzeria, un volante e delle ruote.
Infatti non è una transizione riconducibile a variabili esplicative quali il liberismo e le privatizzazioni, che potrebbero anzi esserne la conseguenza; né a tendenze quali la globalizzazione o la finanziarizzazione, che non hanno generato ma soltanto accelerato tali sviluppi. E neppure alle scelte di specifiche forze sociali o leadership politiche, le quali non avrebbero comunque potuto mutarne la componente strutturale e l’ampio respiro storico.
Quel che cambia deriva soltanto in parte dall’aver messo congegni e apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’aspetto più nuovo è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni e tecnologie che accresce la reattività delle imprese rispetto alle incostanze e alle turbolenze del mercato. Del resto le tecnologie odierne sono tali che ciascuna impresa può trovare soluzioni proprie e peculiari per risolvere il medesimo problema.
L' INIZIO DELLA FINE DEL CAPITALISMO PER COME LO CONOSCEVAMO
L’inizio si può far coincidere con il primo shock petrolifero, avvenuto nel 1973, anche se i primi segnali di crisi erano comparsi già in precedenza nell’industria automobilistica, quella stessa che aveva trainato lo sviluppo capitalistico per tutto il Novecento. Alle radici della crisi stavano le crescenti rigidità nei rapporti che l’impresa intratteneva con il mercato e con il lavoro.
L'INIZIO DELLA CRISI DEL CAPITALISMO..."ALLA MARX" (Fordismo)
Da un lato la domanda dei consumatori e la competizione con i concorrenti erano sempre meno gestibili con la produzione di massa, perché le difficoltà ad affrontare le turbolenze aumentavano mentre i vantaggi derivati dalle economie di scala diminuivano. Un sintomo di malessere stava nei costi dello stoccaggio di prodotti finiti e nell’ampiezza delle scorte di manodopera: alle oscillazioni della domanda e agli intoppi della produzione le imprese ponevano rimedio con "polmoni" che eludevano il problema costituito da strutture e da meccanismi troppo rigidi.
Dall’altro lato aumentavano sia le difficoltà a reperire personale sia le contestazioni all’organizzazione taylor-fordista simboleggiata dalla "catena" di montaggio, per cui le imprese erano costrette a "raschiare il fondo del barile", a ridurre i ritmi di lavoro, ad allentare la disciplina di fabbrica: in Italia vi furono casi clamorosi (specie alla Fiat) mentre negli Usa il governo diede conto dell’insoddisfazione operaia nel rapporto Work in America.
TENSIONI CRESCENTI: LA CRISI PRECIPITA...
Queste tensioni esterne e interne provocarono fasi di crisi e processi di ristrutturazione che finirono col mutare l’impresa e il sistema stesso delle imprese. Una delle soluzioni cui si fece ricorso invano fu l’intensifica-zione tecnologica. La Fiat investì somme consistenti in una "robotizzazione" spinta, per eliminare dagli stabilimenti le operazioni più contestate, e fece sorgere un’intera fabbrica "integrata" ove si impiegavano avanzatissime tecnologie labour saving. Tuttavia la meccanizzazione e l’automatizza-zione non erano sufficienti a soddisfare la variabilità quantitativa della domanda e la diversificazione qualitativa dell’offerta, ormai necessarie sul mercato.
Oltretutto richiedevano notevoli immobilizzi di capitale e accrescevano le rigidità anziché ridurle. Il problema non era il risparmio di lavoro bensì la gestione dell’impresa nei suoi nuovi rapporti con il mercato, per cui occorrevano soprattutto innovazioni organizzative che rendessero più versatili sia l’impresa sia il lavoro.
LA PRODUZIONE CAPITALISTICA, PER COME L'AVEVAMO SEMPRE CONOSCIUTA, INIZIA A CAMBIAR PELLE: INIZIA L' ERA FLESSIBILE..
2. L’avvento della produzione snella
La via d’uscita alla crisi del taylor-fordismo è venuta da una offerta assai differenziata e continuamente variata: quella che ha dato un mercato planetario al marchio Benetton. Mentre nell’Ottocento si produceva e si consumava per piccoli lotti e nel Novecento per grandi serie, ora si produce e si consuma per grandi serie di piccoli lotti. L’impresa cerca di raggiungere la massa dei consumatori inseguendo il singolo acquirente: si passa pertanto – come dice A. Chandler – dalla "scala" allo "scopo". Questo nuovo paradigma industriale pone dunque la propria dinamica nelle mani del cliente, che decide sull’utilità marginale dell’ultimo articolo ordinato. Al-l’impresa ciò crea notevoli incertezze e richiede una flessibilità, una reattività, una versatilità mai viste.
GIUSTO IN TEMPO !
Un esempio è il procedimento just-in-time. Quando il rappresentante di commercio che visita i negozi da rifornire teletrasmette l’ordine del rivenditore, un calcolatore aggiorna istantaneamente i dati di tutti i materiali e i componenti necessari, e invia dettagliati impulsi all’ammi-nistrazione, ai fornitori, ai reparti e ai servizi perché provvedano a fabbricare, assemblare, inscatolare, fatturare e spedire al più presto il prodotto a destinazione. (Nel supermercato quell’ordine viene dato automaticamente man mano scendono delle giacenze di magazzino). Ciò capovolge la tipica logica del flusso taylor-fordista: anziché essere spinta dal-l’alto, la produzione è tirata dal basso.
CADE IL CONCETTO MARXISTA DI ALIENAZIONE DEL LAVORO: NASCE L' OPERAIO DE-SPECIALIZZATO. L' OPERAIO POLI_VALENTE
Si dice che "l’impresa respira" proprio perché tutto, a cominciare dal fabbisogno di lavoro, si allinea in tempo reale agli ordinativi pervenuti. Al limite, il circuito si chiude quando per un lavoratore temporaneo scatta la missione urgente che deve soddisfare l’ordinativo urgente fatto poco prima da lui stesso come consumatore. Il post-fordismo è questo: un rispecchiarsi vicendevole del lavoratore nel consumatore. Tutte le novità si compendiano dunque in un meccanismo adattivo che si pungola da sé.
NASCE L' ESIGENZA DELL' OPERAIO FLESSIBILE...
Le scelte del singolo consumatore determinano una incredibile variabilità della domanda che innova profondamente le basi di mercato dell’in-dustria. L’evolversi del modo di produrre dalla mass production alla lean production è quindi un grande cambiamento nella storia sociale. La necessità di rispondere a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola a farsi leggera, agile e snella.
Ciò ribalta la logica delle economie di scala e dell’integra-zione verticale, tant’è vero che diminuisce la dimensione media dell’impre-sa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale.
La maggiore flessibilità operativa e la maggiore reattività agli shock, tipiche della piccola dimensione, sono state favorite dalle tecnologie della comunicazione, che hanno offerto mezzi e opportunità per ridurre il divario strutturale e il dislivello competitivo rispetto alla grande dimensione. Ciò alimenta una demografia d’impresa inopinatamente vivace, che connota tutto lo scenario dei cambiamenti. La nati-mortalità delle imprese, soprattutto quelle più piccole, è vorticosa non soltanto nella new economy.
Ovunque il saldo è quasi sempre positivo perché ne nascono più di quante se ne chiudono, ma la loro vita è più breve perché sono più frequenti le cessazioni, le acquisizioni, le cessioni, le fusioni.
RIDUTTIVISMO, FLESSIBILITA' VOLATILITA' E MICRO IMPRESE
Si arriva a forme di volatilità invero spinte. Ci sono micro-imprese che sorgono e si strutturano intorno a un’attività a termine o a uno specifico obiettivo, e che si contraggono fin quasi alla dimensione zero una volta che cessa l’attività o che l’obiettivo viene raggiunto. Così funziona tanta industria dell’intrattenimento, della cultura, delle vacanze, della devozione, della "convegnistica", che del resto sta espandendosi in modo impetuoso. Rispetto alle molte imprese diventate flessibili grazie a una struttura a stella o a ragnatela, queste sembrano addirittura virtuali: infatti talune durano lo spazio di una singola occasione d’attività e impiegano quasi soltanto manodopera a giornata o a prestazione. La globalizzazione ha accelerato su scala mondiale questi processi, che non hanno investito soltanto il sistema delle imprese manifatturiere private ma un po’ tutte le attività economiche di mercato.
LA PIENA SUBORDINAZIONE NON COINCIDE PIU' CON LA PIENA TUTELA
Dopo avere trasformato il modus operandi del taylor-fordismo e abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedono la massima flessibilità del lavoro e la massima deregolazione del mercato del lavoro. In tal modo reagiscono anche alle rigidità che il trade-off fra modello taylor-fordista e "cittadinanza industriale" aveva introdotto nel lavoro e nei mercati, quando li aveva uniformati alla produzione di massa. Ciò sta mettendo in causa il modello di regolazione sociale (chiamato da taluni "compromesso fordista-keynesiano") che compensava o risarciva la piena subordinazione con la piena tutela.
L' ORIGINE DEL CAMBIAMENTO: IL SISTEMA TOYOTA
Diversificare a tal punto i singoli esemplari e costruirli con "zero difetti" richiedeva uno snellimento e un affinamento dell’organizzazione produttiva così drastico da contrapporsi alla produzione di massa occidentale e da superare gli standard qualitativi tedeschi.
All’origine della produzione snella (lean) c’è una lontana scelta della fabbrica di camion giapponese Toyota, che si era proposta di superare la ristrettezza del proprio mercato nazionale facendo dell’auto un bene personalizzato di assoluta qualità.
IL METODO JUST IN TIME: DALL' ALIENAZIONE DEL LAVORO, ALLA FRENESIA FRAMMENTATA
La chiave stava nel just-in-time, che ha rivoluzionato non soltanto i rapporti con il mercato ma la filosofia stessa della produzione. Abolire le scorte di beni semilavorati e finiti per mettere in fabbricazione soltanto quel è stato già ordinato dai clienti richiede infatti di affrontare le situazioni e di risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si presentano. Ciò elimina scappatoie e rinvii, assicurando la continuità dei flussi produttivi e soprattutto il miglioramento continuo dell’organizzazione. Perciò impegna moltissimo il management e i lavoratori.
DALLA GERARCHIA MONOLITICA DEL SISTEMA FORDISTA ALL' INTERDIPENDENZA DEI VARI SETTORI E REPARTI : (una sorta di sistema alveare) ?
Tale modo di procedere induce a perseguire l’aumento della produttività mediante una sequenza incrementale di piccole modifiche o di modeste innovazioni, senza grosse novità o macchinari costosi; questa tecnologia "frugale" che elimina gli sprechi introduce dunque un’altra differenza sostanziale della produzione lean rispetto a quella fat, o pingue. Inoltre ogni singolo comparto dell’apparato produttivo diventa autonomo per integrarsi con gli altri orizzontalmente, in modo da accrescere l’elasticità del tutto. Così l’impresa abbrevia i tempi per approvvigionarsi dei componenti, per allestire e mettere in opera i nuovi tipi (set-up), per riconvertire una lavorazione (switch-time), per attraversare il flusso produttivo dal principio alla fine (lead-time). E le scansioni si fanno più rigorose proprio perché cresce l’interdipendenza di tutti i vari settori e apparati.
NUOVE TECNOLOGIE, AUMENTO PRODUTTIVO E DE-SPECIALIZZAZIONE OPERAIA
Il processo lavorativo viene a sua volta rivoluzionato da una combinazione di risorse tecniche e umane che, accompagnata da un capillare flusso di informazioni e da una minore distanza fra chi dirige e chi esegue, elimina la cristallizzazione delle competenze e privilegia il lavoro di gruppo. Tre sono le maggiori novità nell’uso del lavoro. Innanzitutto le maggiori imprese garantiscono una sicurezza d’impiego anche in tempo di crisi, per cui ottengono una produzione elevata e una cooperazione leale. Inoltre la carriera e le ricompense sono collegate assai più all’anzianità aziendale che non all’attività svolta. Infine l’ampliamento delle mansioni, mai attecchito in Occidente, stimola i lavoratori stessi a coltivare una propria polivalenza professionale. Richiamandosi a taluni precetti confuciani e a una concezione comunitaria dell’impresa, senza fuoriuscire dal taylor-fordismo, il Giappone ha saputo insomma prestare attenzione al lavoratore proprio chiedendogli quel contributo di qualità e di impegno di cui l’Occidente si è privato in nome del taylor-fordismo.
T. OHNO : L' ARTEFICE DEL POST-FORDISMO
Produzione snella just-in-time e cooperazione lavorativa polifunzionale costituiscono dunque il nocciolo originale del modello giapponese, teorizzato da T. Ohno come modello Toyota. Per realizzare tutto ciò il Giappone ha reso paradigmatica l’idea europea, nata negli stabilimenti Bat’a, secondo cui chi lavora è il cliente di chi viene prima e il fornitore di chi viene dopo; e ha saputo implementare le tecniche del controllo statistico di qualità, e il concetto stesso di "qualità totale", appresi dagli esperti americani E. Deming e J. Juran che nel proprio paese furono apprezzati troppo tardi.
RISVEGLIO DEL CAPITALISMO OCCIDENTALE E INEVITABILE ADATTAMENTO AL POST-FORDISMO-TOYOTA
Il capitalismo occidentale prese coscienza del nuovo formidabile competitore dopo molti anni durante i quali sembrava soltanto copiare le tecnologie e i prodotti. Un vero shock ci fu quando negli Stati Uniti ebbero successo le auto "compatte" sfornate sul posto dai fabbricanti giapponesi, proprio mentre i tre giganti locali – General Motors, Ford e Chrysler – erano assillati da una produttività declinante. Un famoso rapporto del Massachusetts Institute of Technology accusò di miopia i grandi manager americani, perché incapaci di adeguarsi al paradigma emergente.
Dopo lo stupore dei primi anni ottanta, l’industria di tutto il mondo ha cominciato a prendere spunto dal modello giapponese, importandone e soprattutto "ibridandone" taluni aspetti organizzativi e molti i meccanismi produttivi.
RIDUTTIVISMO AZIENDALE: ANNI 60/70
4. La riduzione delle dimensioni aziendali
A cavallo fra gli anni sessanta e gli anni settanta ci fu chi pronosticò una cesura nella continuità organizzativa e nella dinamica imprenditoriale fino ad allora assicurate dalla grande impresa e dalla produzione di massa. Secondo P. Drucker, noto esperto americano di management, si sarebbe invertita la tendenza al travaso fra imprenditori e manager. Nel-l’impresa gli imprenditori sarebbero tornati "a un livello più alto", perché avrebbero imparato a capire la dinamica della tecnologia, del mercato, dell’organizzazione. Secondo E. Schumacher, economista dell’in-dustria mineraria britannica, si sarebbe altresì riequilibrata l’importanza della piccola e della grande dimensione organizzativa perché l’impresa minore avrebbe stimolato la creatività e l’autonomia così come quella maggiore aveva assicurato la precisione e la conformità.
UN CAMBIAMENTO NOTEVOLE...( Come nel film Paul, Mick e gli altri)
Il cambiamento è notevole. Secondo i vecchi schemi di funzionamento, la migliore combinazione dei fattori produttivi era che l’impresa integrasse ogni attività in verticale al proprio interno, mentre oggi si integra ogni attività in orizzontale con l’esterno. Se ieri nella topografia d’impresa non c’era quasi posto per entità estranee, oggi è normale la presenza di imprese esterne con le quali si intrattengono stretti legami funzionali e operativi. Quelle che offrono servizi di vigilanza, pulizia, manutenzione, trasporto, stoccaggio, logistica, informatica e così via non sono sui generis né tutte di comodo, e spesso rientrano nei vigenti sistemi di relazioni industriali e di normative contrattuali. Né la loro funzione è sempre ancillare. Alcune dispongono di un avanzato know-how, molte non sono affatto piccole e talune sono anzi così grandi da offrire servizi a imprese che sono più piccole di loro.
Così, entro le stesse mura possono operare gomito a gomito lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, facenti capo a società diverse. All’in-dotto esterno si aggiunge insomma un indotto interno. Questa disarticolazione, chiamata anche "terziarizzazione", ha conseguenze che preoccupano i sindacati perché possono generare disparità di trattamento fra lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa sede. Ne fanno le spese i dipendenti "ceduti" dall’impresa principale a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio lavoro; o i lavoratori esterni "prestati" da un’impresa fornitrice e chiamati a svolgere una delle attività rimaste all’impresa principale.
I NUOVI CONTENUTI DEL LAVORO: FLESSIBILITA' E FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO
7. I nuovi contenuti del lavoro
Le novità più cospicue sono però altre, e vengono da movimenti profondi che investono innanzitutto la natura della prestazione, cioè la qualità del lavoro. Con quali effetti? I contenuti si fanno meno manipolativi e più cognitivi, i compiti tendono a essere meno esecutivi ed estranianti, più cooperativi e coinvolgenti, e le conoscenze sono in genere meno specialistiche e più polivalenti. Fra i requisiti richiesti le attitudini stanno diventando importanti quasi come le competenze, cosicché certe doti "femminili" quali la cura, la relazionalità e l’attenzione contano più di ieri mentre contano meno di ieri la manualità e la fisicità stessa del lavoro. Le prescrizioni operative non sono più inderogabili e inflessibili come ieri, per cui il lavoro tende a essere meno livellato e standardizzato, quindi meno piatto e impersonale.
Poiché le tecnologie dell’informazione favoriscono tutti i processi generati dalla produzione snella, un numero sempre maggiore di persone, in ogni tipo di lavoro, lavorerà anche fisicamente in rete e dovrà quindi "prestare attenzione" e sviluppare una "consapevolezza di rete". Nessun lavoratore e nessuna impresa possono chiudersi in se stessi perché il post-fordismo produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Del resto la qualità del prodotto richiede lavoratori la cui adattabilità cresca oltre la rotazione delle mansioni e l’allargamento dei compiti rivendicati invano dal movimento per la "qualità della vita di lavoro" negli anni settanta.
Link molto interessante che tratta dei cambiamenti avvenuti tra il modello fordista-taylorista, dal Post-Fordismo-Toyotismo. Ho voluto postarne una sintesi, mettendo dei titoletti tra i vari passaggi per semplificare meglio l' articolo. E' comunque meglio leggerlo per intero: frammentarne i concetti di base avrebbe reso questo post, ancora più lungo. Buona lettura
http://www.ossimoro.it/lavoro1.htm
1. LA CRISI DEL TAYLOR-FORDISMO
Dopo avere portato la produttività del lavoro e la produzione di massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e da inondare il mondo di beni e di servizi, il modello di produzione e di consumo taylor-fordista è entrato in crisi con gli anni settanta e da allora evolve verso un modello chiamato per convenzione post-fordista.
Il cuore del cambiamento è questo passaggio storico, non quello dall’ industria ai servizi o dalla società industriale alla società post-industriale, tant’è vero che novità quali il just-in-time, il telelavoro, l’outsourcing e i call center vengono tutte dal nuovo modello sul quale si impernia oggi l’industria. Rispetto al taylor-fordismo, il post-fordismo è qualcosa che va oltre anziché qualcosa d’altro: infatti il passaggio in atto si deve sia al successo sia alla crisi del modello taylor-fordiano.
Questo passaggio sta sostituendo un mondo del lavoro piuttosto uniforme com’era quello del Novecento con un universo di lavori assai diversificati che si diffondono in senso spaziale e si disperdono in senso temporale, e che sono svolti da soggetti i quali operano alle dipendenze oppure in modo autonomo o con posizioni miste. Cresce inoltre il numero e cala la dimensione dei luoghi dove si lavora, per cui si trovano ovunque spezzoni di lavoro e persone che lavorano; crescono inoltre i tipi di orario e calano le sincronie fra gli orari, per cui si trovano sempre più persone che lavorano in ore insolite e con calendari complicati, anche nella stessa sede.
Tutto ciò comporta effetti positivi come la de-massificazione del lavoro, ma può anche comportare conseguenze che preoccupano i sindacati, come la de-solidarizza-zione dei lavoratori. Lo scenario che si prospetta è quello di una "società dei lavori", parecchi dei quali cangianti o sfuggenti, anziché di una "società del Lavoro" centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità quale l’Occidente capitalistico aveva avuto nel secolo scorso.
È una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita perché non mostra cesure nette. I suoi sviluppi, resi necessari dalle trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle innovazioni della tecnologia, erano del resto insiti nel medesimo meccanismo di creazione e di soddisfazione dei bisogni. È come l’automobile, che in un secolo è cambiata moltissimo ma continua ad avere un motore, una carrozzeria, un volante e delle ruote.
Infatti non è una transizione riconducibile a variabili esplicative quali il liberismo e le privatizzazioni, che potrebbero anzi esserne la conseguenza; né a tendenze quali la globalizzazione o la finanziarizzazione, che non hanno generato ma soltanto accelerato tali sviluppi. E neppure alle scelte di specifiche forze sociali o leadership politiche, le quali non avrebbero comunque potuto mutarne la componente strutturale e l’ampio respiro storico.
Quel che cambia deriva soltanto in parte dall’aver messo congegni e apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’aspetto più nuovo è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni e tecnologie che accresce la reattività delle imprese rispetto alle incostanze e alle turbolenze del mercato. Del resto le tecnologie odierne sono tali che ciascuna impresa può trovare soluzioni proprie e peculiari per risolvere il medesimo problema.
L' INIZIO DELLA FINE DEL CAPITALISMO PER COME LO CONOSCEVAMO
L’inizio si può far coincidere con il primo shock petrolifero, avvenuto nel 1973, anche se i primi segnali di crisi erano comparsi già in precedenza nell’industria automobilistica, quella stessa che aveva trainato lo sviluppo capitalistico per tutto il Novecento. Alle radici della crisi stavano le crescenti rigidità nei rapporti che l’impresa intratteneva con il mercato e con il lavoro.
L'INIZIO DELLA CRISI DEL CAPITALISMO..."ALLA MARX" (Fordismo)
Da un lato la domanda dei consumatori e la competizione con i concorrenti erano sempre meno gestibili con la produzione di massa, perché le difficoltà ad affrontare le turbolenze aumentavano mentre i vantaggi derivati dalle economie di scala diminuivano. Un sintomo di malessere stava nei costi dello stoccaggio di prodotti finiti e nell’ampiezza delle scorte di manodopera: alle oscillazioni della domanda e agli intoppi della produzione le imprese ponevano rimedio con "polmoni" che eludevano il problema costituito da strutture e da meccanismi troppo rigidi.
Dall’altro lato aumentavano sia le difficoltà a reperire personale sia le contestazioni all’organizzazione taylor-fordista simboleggiata dalla "catena" di montaggio, per cui le imprese erano costrette a "raschiare il fondo del barile", a ridurre i ritmi di lavoro, ad allentare la disciplina di fabbrica: in Italia vi furono casi clamorosi (specie alla Fiat) mentre negli Usa il governo diede conto dell’insoddisfazione operaia nel rapporto Work in America.
TENSIONI CRESCENTI: LA CRISI PRECIPITA...
Queste tensioni esterne e interne provocarono fasi di crisi e processi di ristrutturazione che finirono col mutare l’impresa e il sistema stesso delle imprese. Una delle soluzioni cui si fece ricorso invano fu l’intensifica-zione tecnologica. La Fiat investì somme consistenti in una "robotizzazione" spinta, per eliminare dagli stabilimenti le operazioni più contestate, e fece sorgere un’intera fabbrica "integrata" ove si impiegavano avanzatissime tecnologie labour saving. Tuttavia la meccanizzazione e l’automatizza-zione non erano sufficienti a soddisfare la variabilità quantitativa della domanda e la diversificazione qualitativa dell’offerta, ormai necessarie sul mercato.
Oltretutto richiedevano notevoli immobilizzi di capitale e accrescevano le rigidità anziché ridurle. Il problema non era il risparmio di lavoro bensì la gestione dell’impresa nei suoi nuovi rapporti con il mercato, per cui occorrevano soprattutto innovazioni organizzative che rendessero più versatili sia l’impresa sia il lavoro.
LA PRODUZIONE CAPITALISTICA, PER COME L'AVEVAMO SEMPRE CONOSCIUTA, INIZIA A CAMBIAR PELLE: INIZIA L' ERA FLESSIBILE..
2. L’avvento della produzione snella
La via d’uscita alla crisi del taylor-fordismo è venuta da una offerta assai differenziata e continuamente variata: quella che ha dato un mercato planetario al marchio Benetton. Mentre nell’Ottocento si produceva e si consumava per piccoli lotti e nel Novecento per grandi serie, ora si produce e si consuma per grandi serie di piccoli lotti. L’impresa cerca di raggiungere la massa dei consumatori inseguendo il singolo acquirente: si passa pertanto – come dice A. Chandler – dalla "scala" allo "scopo". Questo nuovo paradigma industriale pone dunque la propria dinamica nelle mani del cliente, che decide sull’utilità marginale dell’ultimo articolo ordinato. Al-l’impresa ciò crea notevoli incertezze e richiede una flessibilità, una reattività, una versatilità mai viste.
GIUSTO IN TEMPO !
Un esempio è il procedimento just-in-time. Quando il rappresentante di commercio che visita i negozi da rifornire teletrasmette l’ordine del rivenditore, un calcolatore aggiorna istantaneamente i dati di tutti i materiali e i componenti necessari, e invia dettagliati impulsi all’ammi-nistrazione, ai fornitori, ai reparti e ai servizi perché provvedano a fabbricare, assemblare, inscatolare, fatturare e spedire al più presto il prodotto a destinazione. (Nel supermercato quell’ordine viene dato automaticamente man mano scendono delle giacenze di magazzino). Ciò capovolge la tipica logica del flusso taylor-fordista: anziché essere spinta dal-l’alto, la produzione è tirata dal basso.
CADE IL CONCETTO MARXISTA DI ALIENAZIONE DEL LAVORO: NASCE L' OPERAIO DE-SPECIALIZZATO. L' OPERAIO POLI_VALENTE
Si dice che "l’impresa respira" proprio perché tutto, a cominciare dal fabbisogno di lavoro, si allinea in tempo reale agli ordinativi pervenuti. Al limite, il circuito si chiude quando per un lavoratore temporaneo scatta la missione urgente che deve soddisfare l’ordinativo urgente fatto poco prima da lui stesso come consumatore. Il post-fordismo è questo: un rispecchiarsi vicendevole del lavoratore nel consumatore. Tutte le novità si compendiano dunque in un meccanismo adattivo che si pungola da sé.
NASCE L' ESIGENZA DELL' OPERAIO FLESSIBILE...
Le scelte del singolo consumatore determinano una incredibile variabilità della domanda che innova profondamente le basi di mercato dell’in-dustria. L’evolversi del modo di produrre dalla mass production alla lean production è quindi un grande cambiamento nella storia sociale. La necessità di rispondere a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola a farsi leggera, agile e snella.
Ciò ribalta la logica delle economie di scala e dell’integra-zione verticale, tant’è vero che diminuisce la dimensione media dell’impre-sa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale.
La maggiore flessibilità operativa e la maggiore reattività agli shock, tipiche della piccola dimensione, sono state favorite dalle tecnologie della comunicazione, che hanno offerto mezzi e opportunità per ridurre il divario strutturale e il dislivello competitivo rispetto alla grande dimensione. Ciò alimenta una demografia d’impresa inopinatamente vivace, che connota tutto lo scenario dei cambiamenti. La nati-mortalità delle imprese, soprattutto quelle più piccole, è vorticosa non soltanto nella new economy.
Ovunque il saldo è quasi sempre positivo perché ne nascono più di quante se ne chiudono, ma la loro vita è più breve perché sono più frequenti le cessazioni, le acquisizioni, le cessioni, le fusioni.
RIDUTTIVISMO, FLESSIBILITA' VOLATILITA' E MICRO IMPRESE
Si arriva a forme di volatilità invero spinte. Ci sono micro-imprese che sorgono e si strutturano intorno a un’attività a termine o a uno specifico obiettivo, e che si contraggono fin quasi alla dimensione zero una volta che cessa l’attività o che l’obiettivo viene raggiunto. Così funziona tanta industria dell’intrattenimento, della cultura, delle vacanze, della devozione, della "convegnistica", che del resto sta espandendosi in modo impetuoso. Rispetto alle molte imprese diventate flessibili grazie a una struttura a stella o a ragnatela, queste sembrano addirittura virtuali: infatti talune durano lo spazio di una singola occasione d’attività e impiegano quasi soltanto manodopera a giornata o a prestazione. La globalizzazione ha accelerato su scala mondiale questi processi, che non hanno investito soltanto il sistema delle imprese manifatturiere private ma un po’ tutte le attività economiche di mercato.
LA PIENA SUBORDINAZIONE NON COINCIDE PIU' CON LA PIENA TUTELA
Dopo avere trasformato il modus operandi del taylor-fordismo e abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedono la massima flessibilità del lavoro e la massima deregolazione del mercato del lavoro. In tal modo reagiscono anche alle rigidità che il trade-off fra modello taylor-fordista e "cittadinanza industriale" aveva introdotto nel lavoro e nei mercati, quando li aveva uniformati alla produzione di massa. Ciò sta mettendo in causa il modello di regolazione sociale (chiamato da taluni "compromesso fordista-keynesiano") che compensava o risarciva la piena subordinazione con la piena tutela.
L' ORIGINE DEL CAMBIAMENTO: IL SISTEMA TOYOTA
Diversificare a tal punto i singoli esemplari e costruirli con "zero difetti" richiedeva uno snellimento e un affinamento dell’organizzazione produttiva così drastico da contrapporsi alla produzione di massa occidentale e da superare gli standard qualitativi tedeschi.
All’origine della produzione snella (lean) c’è una lontana scelta della fabbrica di camion giapponese Toyota, che si era proposta di superare la ristrettezza del proprio mercato nazionale facendo dell’auto un bene personalizzato di assoluta qualità.
IL METODO JUST IN TIME: DALL' ALIENAZIONE DEL LAVORO, ALLA FRENESIA FRAMMENTATA
La chiave stava nel just-in-time, che ha rivoluzionato non soltanto i rapporti con il mercato ma la filosofia stessa della produzione. Abolire le scorte di beni semilavorati e finiti per mettere in fabbricazione soltanto quel è stato già ordinato dai clienti richiede infatti di affrontare le situazioni e di risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si presentano. Ciò elimina scappatoie e rinvii, assicurando la continuità dei flussi produttivi e soprattutto il miglioramento continuo dell’organizzazione. Perciò impegna moltissimo il management e i lavoratori.
DALLA GERARCHIA MONOLITICA DEL SISTEMA FORDISTA ALL' INTERDIPENDENZA DEI VARI SETTORI E REPARTI : (una sorta di sistema alveare) ?
Tale modo di procedere induce a perseguire l’aumento della produttività mediante una sequenza incrementale di piccole modifiche o di modeste innovazioni, senza grosse novità o macchinari costosi; questa tecnologia "frugale" che elimina gli sprechi introduce dunque un’altra differenza sostanziale della produzione lean rispetto a quella fat, o pingue. Inoltre ogni singolo comparto dell’apparato produttivo diventa autonomo per integrarsi con gli altri orizzontalmente, in modo da accrescere l’elasticità del tutto. Così l’impresa abbrevia i tempi per approvvigionarsi dei componenti, per allestire e mettere in opera i nuovi tipi (set-up), per riconvertire una lavorazione (switch-time), per attraversare il flusso produttivo dal principio alla fine (lead-time). E le scansioni si fanno più rigorose proprio perché cresce l’interdipendenza di tutti i vari settori e apparati.
NUOVE TECNOLOGIE, AUMENTO PRODUTTIVO E DE-SPECIALIZZAZIONE OPERAIA
Il processo lavorativo viene a sua volta rivoluzionato da una combinazione di risorse tecniche e umane che, accompagnata da un capillare flusso di informazioni e da una minore distanza fra chi dirige e chi esegue, elimina la cristallizzazione delle competenze e privilegia il lavoro di gruppo. Tre sono le maggiori novità nell’uso del lavoro. Innanzitutto le maggiori imprese garantiscono una sicurezza d’impiego anche in tempo di crisi, per cui ottengono una produzione elevata e una cooperazione leale. Inoltre la carriera e le ricompense sono collegate assai più all’anzianità aziendale che non all’attività svolta. Infine l’ampliamento delle mansioni, mai attecchito in Occidente, stimola i lavoratori stessi a coltivare una propria polivalenza professionale. Richiamandosi a taluni precetti confuciani e a una concezione comunitaria dell’impresa, senza fuoriuscire dal taylor-fordismo, il Giappone ha saputo insomma prestare attenzione al lavoratore proprio chiedendogli quel contributo di qualità e di impegno di cui l’Occidente si è privato in nome del taylor-fordismo.
T. OHNO : L' ARTEFICE DEL POST-FORDISMO
Produzione snella just-in-time e cooperazione lavorativa polifunzionale costituiscono dunque il nocciolo originale del modello giapponese, teorizzato da T. Ohno come modello Toyota. Per realizzare tutto ciò il Giappone ha reso paradigmatica l’idea europea, nata negli stabilimenti Bat’a, secondo cui chi lavora è il cliente di chi viene prima e il fornitore di chi viene dopo; e ha saputo implementare le tecniche del controllo statistico di qualità, e il concetto stesso di "qualità totale", appresi dagli esperti americani E. Deming e J. Juran che nel proprio paese furono apprezzati troppo tardi.
RISVEGLIO DEL CAPITALISMO OCCIDENTALE E INEVITABILE ADATTAMENTO AL POST-FORDISMO-TOYOTA
Il capitalismo occidentale prese coscienza del nuovo formidabile competitore dopo molti anni durante i quali sembrava soltanto copiare le tecnologie e i prodotti. Un vero shock ci fu quando negli Stati Uniti ebbero successo le auto "compatte" sfornate sul posto dai fabbricanti giapponesi, proprio mentre i tre giganti locali – General Motors, Ford e Chrysler – erano assillati da una produttività declinante. Un famoso rapporto del Massachusetts Institute of Technology accusò di miopia i grandi manager americani, perché incapaci di adeguarsi al paradigma emergente.
Dopo lo stupore dei primi anni ottanta, l’industria di tutto il mondo ha cominciato a prendere spunto dal modello giapponese, importandone e soprattutto "ibridandone" taluni aspetti organizzativi e molti i meccanismi produttivi.
RIDUTTIVISMO AZIENDALE: ANNI 60/70
4. La riduzione delle dimensioni aziendali
A cavallo fra gli anni sessanta e gli anni settanta ci fu chi pronosticò una cesura nella continuità organizzativa e nella dinamica imprenditoriale fino ad allora assicurate dalla grande impresa e dalla produzione di massa. Secondo P. Drucker, noto esperto americano di management, si sarebbe invertita la tendenza al travaso fra imprenditori e manager. Nel-l’impresa gli imprenditori sarebbero tornati "a un livello più alto", perché avrebbero imparato a capire la dinamica della tecnologia, del mercato, dell’organizzazione. Secondo E. Schumacher, economista dell’in-dustria mineraria britannica, si sarebbe altresì riequilibrata l’importanza della piccola e della grande dimensione organizzativa perché l’impresa minore avrebbe stimolato la creatività e l’autonomia così come quella maggiore aveva assicurato la precisione e la conformità.
UN CAMBIAMENTO NOTEVOLE...( Come nel film Paul, Mick e gli altri)
Il cambiamento è notevole. Secondo i vecchi schemi di funzionamento, la migliore combinazione dei fattori produttivi era che l’impresa integrasse ogni attività in verticale al proprio interno, mentre oggi si integra ogni attività in orizzontale con l’esterno. Se ieri nella topografia d’impresa non c’era quasi posto per entità estranee, oggi è normale la presenza di imprese esterne con le quali si intrattengono stretti legami funzionali e operativi. Quelle che offrono servizi di vigilanza, pulizia, manutenzione, trasporto, stoccaggio, logistica, informatica e così via non sono sui generis né tutte di comodo, e spesso rientrano nei vigenti sistemi di relazioni industriali e di normative contrattuali. Né la loro funzione è sempre ancillare. Alcune dispongono di un avanzato know-how, molte non sono affatto piccole e talune sono anzi così grandi da offrire servizi a imprese che sono più piccole di loro.
Così, entro le stesse mura possono operare gomito a gomito lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, facenti capo a società diverse. All’in-dotto esterno si aggiunge insomma un indotto interno. Questa disarticolazione, chiamata anche "terziarizzazione", ha conseguenze che preoccupano i sindacati perché possono generare disparità di trattamento fra lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa sede. Ne fanno le spese i dipendenti "ceduti" dall’impresa principale a una esterna, e magari chiamati a svolgere il vecchio lavoro; o i lavoratori esterni "prestati" da un’impresa fornitrice e chiamati a svolgere una delle attività rimaste all’impresa principale.
I NUOVI CONTENUTI DEL LAVORO: FLESSIBILITA' E FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO
7. I nuovi contenuti del lavoro
Le novità più cospicue sono però altre, e vengono da movimenti profondi che investono innanzitutto la natura della prestazione, cioè la qualità del lavoro. Con quali effetti? I contenuti si fanno meno manipolativi e più cognitivi, i compiti tendono a essere meno esecutivi ed estranianti, più cooperativi e coinvolgenti, e le conoscenze sono in genere meno specialistiche e più polivalenti. Fra i requisiti richiesti le attitudini stanno diventando importanti quasi come le competenze, cosicché certe doti "femminili" quali la cura, la relazionalità e l’attenzione contano più di ieri mentre contano meno di ieri la manualità e la fisicità stessa del lavoro. Le prescrizioni operative non sono più inderogabili e inflessibili come ieri, per cui il lavoro tende a essere meno livellato e standardizzato, quindi meno piatto e impersonale.
Poiché le tecnologie dell’informazione favoriscono tutti i processi generati dalla produzione snella, un numero sempre maggiore di persone, in ogni tipo di lavoro, lavorerà anche fisicamente in rete e dovrà quindi "prestare attenzione" e sviluppare una "consapevolezza di rete". Nessun lavoratore e nessuna impresa possono chiudersi in se stessi perché il post-fordismo produce e richiede maggiore flessibilità, sia funzionale che mentale. Del resto la qualità del prodotto richiede lavoratori la cui adattabilità cresca oltre la rotazione delle mansioni e l’allargamento dei compiti rivendicati invano dal movimento per la "qualità della vita di lavoro" negli anni settanta.